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248 la fantesca


Narticoforo. (Granchio, percontala, dimandala un poco).

Granchio. O bella giovane e da bene, ...

Nepita. Sei ben un tristo tu.

Granchio. ... di grazia, volgetevi a noi. Prima risponde con i calci che con la lingua: certo deve esser di razza di mulo.

Nepita. Se avessi detto d’asino, sí.

Granchio. Sí ben, di razza d’asino volevo dire.

Nepita. E tu un’altra volta lasciami stare. Ma certo che tu non serai altro che un prosontuoso, poiché arrogantemente parli e prosontuosamente tocchi.

Granchio. È cosí gran male il toccare? Tocco la tazza dove beve il mio padrone, che è d’argento; non posso toccar te?

Nepita. Pensi che se lo sapessero i miei parenti, non te ne farebbono pentire?

Granchio. Tocca tu me, ché i miei parenti non se ne curano.

Nepita. Tu sei ben un cattivo.

Granchio. Cattive son le vesti, ché, si mi vedesti nudo, ti parrei bellissimo.

Narticoforo. Tu veramente deliri e patisci di lucidi intervalli. Alloquar hominem — hic et haec homo: lo uomo e la femina. — Femina da bene!

Nepita. Oh, oh, costui mi chiama «femina da bene»: o è un asino o non deve parlar con me.

Narticoforo. Optime quidem. Deterrima muliercula, idest pessima e cattiva femina.

Nepita. Né tampoco cosí; ma dimmi «femina men cattiva dell’altre».

Narticoforo. Tibi obtemperabo. Femina men cattiva dell’altre, ditemi, state voi qui?

Nepita. Se stesse qui, non anderei caminando.

Narticoforo. Dove stai dunque?

Nepita. Dove mi fermo.

Narticoforo. Dico se sei di qua.

Nepita. Giá, non son d’oltramare o d’oltra i monti.

Narticoforo. Dico se stai in questa casa.

Nepita. Se stessi in questa casa, non starei in piazza.