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atto terzo | 247 |
Granchio. Andiamo; e se non troverete quanto vi ho detto, vo’ che mi strappate la lingua dalle radici e il naso ancora; ma se trovarete quanto vi ho detto che sia vero?
Narticoforo. Amboduo la penitenza, perché vapulando e verberando ne straccheremo.
Granchio. Che colpa ci ho a questo, io?
Narticoforo. Non dico te, ma quello uomo nefario che sará stato áuso usurparsi il nome onorato di un tanto maestro, e luerá la pena della usurpata giurisdizione.
Granchio. Ed io se trovo qualche altro Granchio che dichi che sia me, farò le mie vendette, e massime se si ará mangiato la parte mia. Ma ecco questa è la casa.
Narticoforo. Tocca l’ostio.
Granchio. L’ho toccato.
Narticoforo. Quando il furore m’ave invaso la mente e sono divenuto furibondo, non scherzare. Battila, ti dico.
Granchio. Che colpa ci ha la porta? avete la còlera contro coloro e la volete sfogare sovra la porta?
Narticoforo. Se mi muovi la stizza, sarai lo primo a pentirti di questi futili vanilòqui.
Granchio. O che avessi un che la mi tenesse su le spalle, ché gli vorrei dar un cavallo.
Narticoforo. Taci, che s’apre da se stessa.
Granchio. Oh, come ha fatto bene a sé in non farsi battere e a me questa fatica di batterla, ché giá m’aveva sputato su le mani e stretto il pugno per gastigarla; e ne vien fuori una fantesca.
Narticoforo. Ipsa est ipse ego, ipse tu ipsa illa.
SCENA VIII.
Nepita, Granchio, Narticoforo.
Nepita. (Il rumor che fanno questi dinanzi la porta, m’ha fatto lasciar di burattar la farina. Ma chi è questo barbassoro di qua?).