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208 la fantesca


Essandro. Ditela, ché mi sentiva prorir l’orecchia per ascoltarne alcuna.

Gerasto. Son certo che te la raspará, perché ti sará grata. Ma vo’ duo baci per mancia, ché mi sento prorir le labra.

Essandro. Ditela, ché poi ve li darò.

Gerasto. Ho maritata la tua padroncina.

Essandro. Con chi?

Gerasto. Con un giovane romano, ricco, dotto e bellissimo.

Essandro. Chi è questo giovane cosí aventuroso?

Gerasto. Cintio, figliuol di Narticoforo, maestro di scola dottissimo. Ci abbiam scritto tante volte che alfin siamo restati d’accordo della dote e d’ogni cosa.

Essandro. Come non n’avete fatto parola mai?

Gerasto. Se lo diceva a Santina mia moglie, che è una cicala, sarebbe andata cicalando per gli parenti, amici e vicini, e n’arebbe pieno Napoli in un’ora; e poi forse non essendo d’accordo, saressimo stati burlati da tutti.

Essandro. Quando dunque verran costoro?

Gerasto. Quanto prima, e forse verran oggi che è giornata del procaccio.

Essandro. Oimè!

Gerasto. Oh, come sei divenuta pallida! che ti duole?

Essandro. Oimè, il cuore!

Gerasto. E come sará maritata, mariterò ancora te.

Essandro. Mi sento morire, mi sento uscir l’anima!

Gerasto. Su, dammi i baci per la buona nuova.

Essandro. Partetivi, di grazia: ho sentito la padrona in fenestra, e credo ne facci la spia.

Gerasto. Io mi parto non cosí mio come tuo; e amami, se ti par che l’amor mio lo meriti. Va’ e da’ questa buona nova a mia figlia, fatti dar la mancia e confortala a far la mia volontá. Oh, come sei tramortita! sará stato l’allegrezza della nuova che ti ho data? Fatti far una fregagione alle gambe, ché non sará nulla.