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atto secondo 131

SCENA VI.

Mangone, Filigenio.

Mangone. Ho speso i passi indarno: son ito al Molo, e mi dicono che il padron della nave ragusea con un suo amico passaggiero non era ancora tornato a desinare. Ho lasciato detto che desiava parlargli, e insegnatali la casa mia. Ma io vi tornerò, come arò fatta stima che abbia desinato.

Filigenio. O Mangone, o Mangone!

Mangone. Chi mi chiama?

Filigenio. Chi t’apporta guadagno: vòlgeti.

Mangone. Non è cosa al mondo a cui mi volga piú volentieri. Ditemi, che guadagno mi apportate?

Filigenio. Vorrei un schiavo nero di diciassette in diciotto anni, di garbo e di fattezze signorili, per farne un presente ad un signor principale.

Mangone. Per ora non potrei servirvi, che ho venduti quasi tutti i miei schiavi; ma spero accommodarvene fra poche ore, ché lo torrò da certi amici.

Filigenio. Giá l’hai trovata. Dici che vuoi tòrlo da certi amici per venderlo piú caro.

Mangone. Dico il vero, a fé di uomo da bene.

Filigenio. Giuri la fé di un altro, non la tua, ché tu non sei uomo da bene.

Mangone. Quanti giurano a fé di gentiluomo, che non ci sono? Ma se non lo credete, potrete venir infin a casa e vederlo: dopo pranso ne arò la casa piena e potrete eleggerlo vi come vi piace.

Filigenio. Che ho a far io, ché ti ricordassi di me?

Mangone. Sapete bene che la caparra porta seco tal obligo, che obliga il venditore a ricordarsi piú di lui che di ogni altro; e se non facessi torto alla vicinanza e alla vostra autoritá, ve la chiederei.

Filigenio. T’intendo, eccolati.