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118 la carbonaria


Panfago. Ben sai che son piú tosto avaro delle tue lodi, che prodigo in adularti. Che si fa?

Pirino. Se sta combattendo con la rabbia e con l’ira; e ne ho tanta nel petto, che bastarebbe a riempirne tutte le fère del mondo.

Panfago. Che colpa ci ho io? Volete voi con la vostra rabbia uccidere voi e me in un colpo? Se col mostrarti rabbioso e iracondo pensi che io non abbia a desinar teco, l’erri in grosso. Son gionto al porto: scacciami quanto vuoi, che la tempesta della fame mi vi riconduce.

Pirino. Troppo pungente e pien di spine è il mio cibo per ora.

Panfago. Verrò a mangiar con voi con denti calzati di buoni stivali.

Pirino. Mi pasco di veleno di vipre e di serpenti.

Panfago. Verrò con la pietra di san Paolo, o mi farò incantare da un ciurmatore. Mi negarai almeno due bicchieretti di quel tuo vino garbo?

Pirino. E che non è garbo quel che bevo, Iddio tei dica per me: la mia bevanda è di amarissime lacrime.

Panfago. Di lacrima dolcissima di Somma? Vorrei che sempre si piangesse in casa tua, e non ne mancassero mai le bótte piene di quella lacrima: ché quel color di sangue mi fa rallegrar tutto il sangue; fresco e brillante, mi fa brillare il core; ponendolo in bocca, quel suavissimo odore mi conforta il naso e il cervello e il gusto. E quando lo sento calar nel petto, porta seco un mar di piacere e un foco tacito che tutto mi riscalda. Non posso saper io la cagion della tua rabbia? sbuffi, e mordi l’ugne: hai meco alcuna cosa?

Pirino. (Non posso levarmi da dosso questa mosca canina). Se tu sapessi da quanta angoscia e tribulazione è afflitta l’anima mia, n’avessi compassione; però di giá vattene, ch’io me la torrei con le mosche. Ma ecco quel traditore!