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di restringerne altre di smisurata estensione. Il primo caso si è verificato in Piemonte, ma non fu risolto definitivamente; il secondo può verificarsi nella bassa Italia ove vi sono provincie popolate da sette ad ottocento mila abitanti.

Tutti gli interessi morali e materiali che hanno tratto a molti Comuni, legati come dissi da antichi rapporti di sociabilità, debbono trovare nella rispettiva provincia largo sviluppo ed intelligente protezione. Si concedano pure larghe libertà amministrative alle provincie, e si lascino governare a loro talento tutte quelle bisogne alle quali debbono provvedere coi loro bilanci. La legge poi stabilisca delle norme generali per quei rami di amministrazione, altra volta governate dallo Stato, e che ora si potessero deferire alle provincie senza ledere gli interessi generali della nazione.

La legge Rattazzi, per ciò che concerne le provincie, abbastanza larga essa pure alla base, avrebbe bisogno, a mio subordinato avviso, consultate le istituzioni provinciali degli Stati annessi, di essenziali modificazioni nel senso di maggiore estensione e di minore tutela nelle attribuzioni amministrative. Sarebbe poi da ponderare se non vi si potesse introdurre una categoria di spese obbligatorie, a benefizio delle classi più umili della società, come fu imposto ai Comuni.

Pongasi mente peraltro che la predetta legge se contemplava l’istituzione dei Circondari in seno delle provincie, sacrifizio che si faceva, per quanto sembra, alle esigenze delle antiche provincie che si volevano sopprimere, tale misura non era considerata, come io credo, nella mente del legislatore che come espediente di transizione.