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xvii - torquato tasso | 163 |
sua immaginazione non è chiusa in sé, come in un ultimo termine, a quel modo che dal Boccaccio all’Ariosto si rivela nella poesia; ma è penetrata di languori, di lamenti, di concetti e di sospiri, e va diritto al cuore. L’Ariosto dice:
In si dolci atti, in si dolci lamenti, che parea ad ascoltar fermare i venti. |
Il sentimento, appena annunziato, si scioglie in una immagine fantastica. Il Tasso dice:
In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave, ch’ai cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gl’invoglia e sforza. |
Nella forma ariostesca ci è una virtú espansiva, che rimane superiore all’emozione e cerca il suo riposo non nel particolare, ma nell’insieme: qualitá della forza. Nella forma del Tasso ci è l’impressionabilitá, che turba l’equilibrio e la serenitá della mente e la trattiene intorno alla sua emozione: l’immagine si liquefá e diviene un «non so che»; annunzio dell’immagine che cessa e dell’emozione che soverchia:
E un non so che confuso instilla al core di pietá, di spavento e di dolore. |
Anche tra’ furori delle battaglie la nota prevalente è l’elegiaca, come nella ottava:
Giace il cavallo al suo signore appresso. |
Ne’ casi di morte gli riesce meglio l’elegiaco che l’eroico. Aladino, che cadendo morde la terra ove regnò, è grottesco. Solimano, che
gemito non spande, né atto fa se non altero e grande, |
ti offre un’immagine indistinta. Argante muore come Capaneo; ma la forma è concettosa e insieme vaga, e quelle voci e que’ moti «superbi, formidabili, feroci» non ti dánno niente di percettibile avanti all’immaginazione. L’idea in queste forme rimane intellettuale: non diviene arte. Al contrario, precise, anzi