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di produzione. Le ricchezze son tante, che tutta, l’attivitá dello spirito è consumata a raccoglierle anzi che a crearne di nuove. Senti una stanchezza a leggere queste traduzioni o compilazioni, dove niente è affermato senza un «ipse dixit», o piuttosto «ipsi dixerunt», tante e cosi accumulate sono le citazioni. E non ci è tregua, non digressioni, non varietá in questi Giardini, dove hai innanzi un cicerone insopportabile, sempre con la stessa voce e lo stesso tuono. Nessun movimento d’ immaginazione o di affetto, nessun vestigio di narrazione o descrizione; l’esposizione didattica, il trattato, riempie l’ intelletto e t’uccide l’anima. L’espressione piú chiara del secolo furono i dottissimi Brunetto Latini e Bono Giamboni, traduttori e compilatori infaticabili. Basti dire che il Giamboni, oltre le opere avanti accennate, ha tradotto pure le Storie di Paolo Orosio, l’Arte della guerra di Flavio Vegezio e la Forma di onesta vita di Martino Dumense.

La gloria di questo secolo, cominciatore di civiltá, è di aver preparato il secolo appresso, lasciandogli in ereditá una ricca messe di cognizioni fatte volgari, e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica. Quel tradurre fu un esercizio utilissimo, che diede forma e stabilitá alla nuova lingua, e quella pieghevolezza ed evidenza che viene dalla necessitá di rendere con esattezza il pensiero altrui. Principe de’ traduttori fu Bono Giamboni, cosi terso e fresco che molte pagine, con lievi correzioni, si direbbero scritte oggi, soprattutto dove sono descrizioni di animali o di virtú e di vizi.

In queste prose didattiche non ci è di arte neppure l’ intenzione. Ai contemporanei di Cino, di Cavalcanti, di Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare assai povera cosa. E si venne confermando l’opinione che il volgare non fosse buono che a dire di amore, e che le materie gravi si dovessero trattare in latino, come costumavano gli scrittori di polso.