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E vidi lume in forma di riviera, fulvido di fulgori, intra duo rive, dipinte di mirabil primavera.

Di tal fiumana uscian faville vive e d’ogni parte si mescean ne’ fiori, quasi rubini ch’oro circoscrive.

Poi, come inebriate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge; e s’una entrava, un’altra usciane fuori *.

Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneitá e di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò che in terra è piú ridente e smagliante. Siamo nell’empireo. La virtú visiva è stanca, ma si raccende alle parole di Beatrice, si che gli appare la riviera di luce; e, fortificata la vista in quella riviera, in quei fiori inebrianti, in quell’oro, in quei rubini, in quelle vive faville. Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro tripudio. Ma in veritá gli scanni de’ beati sono meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil primavera.

Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un press’ a poco, un quasi, un come, «fioca e corta» al concetto. Questa impotenza della forma produce un sublime negativo, che Dante esprime con l’energia intellettuale di chi ha vivo il sentimento dell’ infinito :

. . . appressando sé al suo desire, nostro intelletto si profonda tanto che la memoria retro non può ire.

. . . ogni minor natura è corto recettacolo a quel bene eh’ è senza fine e sé con sé misura.

. . . nella giustizia sempiterna la vista che riceve il vostro mondo, com’occhio per lo mare, entro s’ interna;

1 xxx, 61-9.