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xi - le «stanze» | 363 |
canto delle «fanciulle», o delle «giovani donne», o de’ «romiti», o de’ «poveri». Il motivo generale è l’amor licenzioso, stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che mettono in moto l’immaginazione. È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo. La rappresentazione della vita e de’ costumi e delle condizioni sociali e l’allegra caricatura, che sono l’anima di questo genere di letteratura, com’è nel «carnevale» di Goethe, si perdono ne’ bassi fondi della oscenitá plebea. Cosa ora possono essere le sue Laude se non parodie? Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
In questa pozzanghera finirono le serenate, le mattinate, le dipartite, le ritornate, le lettere, gli strambotti, le cacce, le mascherate, le frottole, le ballate, venute a mano de’ letterati. Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie ne’ sonetti plebei del canonico Franco e suoi pari, che non avevano neppure l’arguzia e la festivitá di Lorenzo.
Il popolo era meno corrotto de’ suoi letterati. Ne’ suoi canti non trovavi certo l’amore platonico e ascetico e i concetti raffinati, ma neppure gli equivoci osceni di Lorenzo e le brutture del Franco.
La piú schietta voce di questa letteratura popolare è Angelo Poliziano. Rado cápita negli equivoci. Scherza, motteggia, ma con urbanitá e decenza, come ne’ suoi consigli alle donne:
Io vi vo’, donne, insegnare come voi dobbiate fare; |
Donne mie, voi non sapete ch’i’ho el mal ch’avea quel prete. |
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio, in un verde giardino. |