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ix - il «decamerone» | 325 |
inventata dal Boccaccio, come non è sua invenzione il periodo. Ma è lui che le dá un corpo e l’intonazione. Prima di lui l’ottava rima è un accozzamento slegato e fortuito, dove diversi oggetti sono ficcati insieme a caso, che potrebbero assai bene star da sé. Stanno li dentro oggetti nudi: non ci è un solo oggetto sviluppato e addobbato. L’ottava rima è un meccanismo: non è ancora un organismo. Il Boccaccio ha fatto dell’ottava una totalitá organica, ed è l’oggetto che si sviluppa a poco a poco nelle sue gradazioni. Ben trovi ne’ suoi poemi ottave felici; ma in generale elle sono impigliate, mal costruite, e in sul piú bello ti cascano. Nel genere eroico ti riesce sforzato e teso; nel genere idillico ti riesce volgare e abbandonato. Gli è che l’ottava, nell’ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni, è la maggiore idealitá della forma poetica e richiede un’attivitá geniale che manca al Boccaccio, errante in un mondo artificiale e convenzionale. Il difetto è tutto al di dentro, nell’anima: ciò che freddamente è concepito, nasce debole e mal congegnato, e non ci vale artificio.
Qui al contrario l’autore è a casa sua: pinge un mondo in cui vive, a cui partecipa con la piú grande simpatia, e, tutto in esso, gitta via ogni involucro artificiale. Ci è in lui qualche cosa piú che il letterato: ci è l’uomo che vi guazza entro e vi si dimena e vi si strofina e vi lascivia. E n’esce una forma, che è quel mondo esso medesimo, di cui sente gli stimoli nella carne e nell’immaginazione. Cosí è venuta fuori quella forma di prosa che si chiama il «periodo boccaccevole».
A quel tempo il grande movimento letterario che aveva il suo centro a Firenze si era di poco allargato fuori di Toscana. La restaurazione dell’antichitá che presentava all’immaginazione nuovi orizzonti, il mondo greco che allora spuntava appena, involto in quel vago chiaroscuro che accresce le illusioni, tirava a sé l’attenzione. La lingua di Dante non era ancora lingua italiana: la chiamavano «idioma fiorentino». La lingua era sempre il latino, né era mutata l’opinione che di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere in «latino volgare», come si chiamavano i dialetti. Il Boccaccio dice di sé che scrive in «idioma