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saviamente a vivere e a vendicarsi, non col ferro ma, come i letterati fanno, con «concordare di rime» o «distender di prose». Fra questi pensieri si addormenta e si trova in sogno nel «laberinto d’amore» o valle incantata, una specie di selva dantesca, dove gli appare un’ombra, ed è il marito della donna, che nel purgatorio espia la troppa pazienza avuta con lei. Costui gli espone tutte le cattive qualitá delle donne, a cominciare dalla sua. E quando si è bene sfogato, lo conduce sopra di un monte altissimo, onde vede il laberinto metter capo nell’inferno. Questa vista guarisce il Boccaccio del mal concetto amore. Come si vede, la satira non è rappresentazione artistica ma esposizione, in forma di un trattato di morale, de’ vizi femminili. Nondimeno trovi qua e lá di bei motti e novellette graziose e descrizioni vivaci dei costumi delle donne, con l’uso felicissimo del dialetto fiorentino: com’è la donna in chiesa, che «incomincia una dolente filza di paternostri, dall’una mano nell’altra e dall’altra nell’una trasmutandogli senza mai dirne niuno»; o la donna che con le sue gelosie non dá tregua al marito, e «di ciarlare mai non resta, mai non molla, mai non fina: dálle, dálle, dálle, dalla mattina infino alla sera, e la notte ancora non sa restare». Nelle sue gelose querele si rivela il vero genio del Boccaccio: una forza comica accompagnata con vera felicitá di espressione, attinta in un- dialetto cosi vivace e giá maturo, pieno di scorciatoie, di frizzi, di motti, di grazie. Citiamo alcuni brani:


Credi tu ch’i’ sia abbagliata e ch’io non sappia a cui tu vai dietro? a cui tu vuogli bene? e con cui tutto il di favelli?... Misera me, che è cotanto tempo ch’io ci venni, eppure una volta ancora non mi dicesti, quando a letto mi vengo: — Amor mio, ben sia venuta. — Ma, alla croce di Dio, io farò di quelle a te che tu fai a me. Or son io cosi sparuta? non son io cosi bella come la cotale? Ma sai che ti dico? chi due bocche bacia, l’una convien che gli puta. Fatti in costá: se Dio m’aiuti, tu non mi toccherai: va’ dietro a quelle di cui tu se’ degno, ché certo tu non eri degno d’aver me, e fai ben ritratto di quello che tu se’. Ma a fare a far sia.


Questa è lingua giá degna di Plauto; e il Corbaccio è sparso di cotali scene, degne di colui che aveva giá scritto il Decamerone.