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il colera 59

memoria gli untori di Milano. Gli opuscoli dei medici confondevano ancora più le menti. Chi affermava l’epidemia e chi il contagio. Molti i rimedi, e perciò si prestava poca fede ai medici e alle loro cure. C’erano i creduli, che narravano cure miracolose; ma il morbo procedeva con tanta violenza che lasciava poco adito alla ciarlataneria. Non mancavano le processioni, le esposizioni di Santi e di Madonne, le invocazioni e le preghiere e le penitenze; ma la paura del contagio raffreddava lo zelo religioso. Nell’ultimo tempo, per non fiaccare più gli animi, s’era tolta dagli occhi ogni parte spettacolosa, i campanelli, le fraterie, i preti, i fratelli delle congregazioni, ogni sorta di accompagnamento, il che scemava poco la paura e accresceva lo squallore. Erano sepolture notturne, le quali, esagerate di bocca in bocca, riempivano nel mattino la città di nuovi spaventi.

Anche a me giungeva un vocio del colera; in casa e fuori casa non si parlava che di questo. Ma l’impressione su di me era piccola. Uso alla vita interiore, il mondo mi passava innanzi come una fantasmagoria; non avrei saputo ridire cosa mangiavo, come vestivo e come vestivano gli altri. Anche oggi dei miei piú cari amici ricordo le fisonomie, non il vestito. Quelle varie voci del morbo si arrestavano come un ronzio importuno nel mio orecchio, non turbavano la mia serenità; anzi, io avevo una certa inclinazione a esagerarle ancora più, a metterci i miei colori e i miei ricami, a provocare lo spavento sulle facce, stentando molto a frenare il riso. Vedevo le cose non quali erano, ma quali volevo che fossero secondo la disposizione della mia mente; quei mali già così gravi erano inadeguati alla mia immaginazione letteraria, e andavo trattando e tormentando i fatterelli che mi erano raccontati, come fossero pagine di romanzo. Presto divenni insopportabile agli amici; il mio coraggio e la mia indifferenza già parevano loro un rimprovero; ma ciò che addirittura li metteva fuori di sé, era quella mia aria motteggiatrice, quel riso che mi appariva sulle labbra, innanzi ai moti improvvisi che certe notizie producevano sulle loro facce contraffatte dalla paura. Sentivo talora che facevo male, e sforzavo il viso a serietà; pur ci riuscivo poco. La mia condotta non ve-