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l'abate fazzini 21

sillabe e correndo a precipizio. Il maestro ci badava poco, distratto e spesso seccato, e ci accomiatava con il suo solito intercalare: — Appresso!

Questa mia inattitudine alle matematiche non so s’era colpa mia o del maestro; certo è che di quegli studi non mi è rimasto nulla. Ero avvezzo a studiare con l’immaginazione, e quei numeri e quelle linee così in astratto non mi capivano in mente. Non era un po’ colpa del metodo? E poi il maestro aveva troppa fretta, e non faceva quasi altro che ripetere sulla lavagna il libro di testo. Queste lacune nel mio spirito erano dissimulate dalla potente memoria, e perché ripetevo tutto, pareva anche a me di sapere tutto. Portavo la testa alta tra i corgpagni, e una voce segreta mi diceva:— Tu vali piú di loro— .La lezione avuta dal gesuita non mi aveva corretto, perché nel latino non la pretendevo a gran cosa. Ma quanto a letteratura e a filosofia, ci tenevo.

Volgevano verso la fine gli studi filosofici. Era il di onomastico dell’abate. Per celebrare la sua festa volle dare una serata, una specie di accademia con versi e prose, in fine complimenti, gelati e confetture. Giovannino e io ci preparammo. Avevamo tra mano calde calde certe poesie del Capasso in dialetto napoletano. Giovannino vi raffazzonò un sonetto, un luogo comune, girato assai bene in quattordici versi, con frasi goffe tolte a imprestito dal poeta napoletano. A me parve questo cosa troppo facile e troppo andante, e mi si volgeva nell’animo non so che Iliade, qualcosa di grosso. Sudai al gran lavoro una quindicina di giorni. Di qua, di là mi venivano immagini e frasi; non so come, mi brillavano accanto a un’immagine di Omero una frase di Virgilio e un verso sciolto del Trissino, che leggevo allora allora. Ne nacque una olla putrida in versi sciolti, un volume di carta scritta, da far paura. Andammo. Io ero alto della persona, magro e svelto, tutto pulitino, e non capivo in me con quello scartafaccio sotto al braccio. La sala era piena. Molte signore con le bambine, numerosa gioventù, vecchi papà bene azzimati. L’uscio di faccia era aperto, e ne veniva un grato odore di confetture. L’abatino in guanti faceva assai bene gli onori di casa, di su di giù, sdrucciolava fra tutti i crocchi,