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126 la giovinezza

XXIII

LO STILE

La scolaresca era così cresciuta che in quella mia sala ci si stava a disagio. Pensai di mutar casa. Zio Peppe, vedendomi ben guarito, tornò in paese, adducendo per motivo la gravezza dell’etá. In verità io era proprio guarito, perché non guardavo più al balcone, e rimandavo indietro i bigliettini senza aprirli. Una sera si fe’ trovare giù al suo portoncino, e mi fece il pissi pissi. Ma voltai il viso e andai. Un filo di speranza ebbe quando sentì partito zio Peppe. Infine si persuase, e non la vidi più.

La nuova casa era nel larghetto di San Pellegrino, a San Paolo. Mi parve la più bella casa che uomo potesse avere. Un gran cortile, belle scale, posta quasi tutta a mezzodì, con un giardino dirimpetto e un grazioso terrazzino. La casa era all’antica, con grandi finestre e grandi sale. A dritta era una sala capace di meglio che trecento persone, bene aerata, piena di luce. Li m’installai. Non era messa con lusso, ma non mancava la decenza. In fondo, a sinistra, era il tavolino con l’immancabile lavagna, e presso la finestra, di lato, era la cattedra. A sinistra della entrata c’era la così detta galleria, una sala capace di un migliaio di persone, ch’io aveva cercato di riempire alla meglio con lunghi sofà coperti di tela bianca. C’era nel mezzo una gran tavola coperta di marmo, con sopra libri e carte alla rinfusa: poteva parere una sala di lettura. Quella casa fu di buon augurio. Gli studenti moltiplicavano. E quantunque io concedessi ingresso gratuito a tutti quelli che si dicevano poveri, pure era un bel numero che pagavano, e ne cavavo di bei quattrini. Non si era dato ancora il caso che qualcuno lasciasse la mia scuola. Io dispensai dal pagamento quelli che vi rimanevano più di un anno, e avvenne che parecchi vi rimasero fino a otto anni, vale a dire tutto il tempo che durò la scuola.

Tra i nuovi arrivati c’era un vecchio, per nome don Francesco, che, venuto per curiosità, non se ne parti più, e pigliava