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98 la giovinezza

XIX

MALATTIE REALI E IMMAGINARIE

In questo primo anno della mia scuola mi giunse notizia che la divisione nella famiglia era compiuta. Papà, sempre un po’ poeta, avea scelto quella parte della casa ch’era in uno stato meno buono, perché col tempo era possibile allargarsi da quel lato e farsi una casa bella. Cosi con la poesia dell’avvenire si consolava della miseria presente. Intanto ci si stava alle strette, e bisognò farsi l’uscita da un’altra strada, fabbricare e lasciare a mezzo la fabbrica, dove gli altri, col loro pensiero prosaico, ebbero la casa bella e fatta, senza spesa e senza ansietà del domani. Questo fu il frutto della poesia. I due zii s’erano divisi secondo le loro inclinazioni; zio Carlo stava con gli altri, e zio Peppe con noi. Il cugino Aniello era in Avellino a studio; poco poi rimpatriò e studiava medicina col padre. Paolino mio fratello era in seminario. Gli altri fratelli rimasero in casa sotto la disciplina di zio Peppe. Vito si trovava con me ch’era un pezzo. Io non potea troppo avergli l’occhio sopra; e poi era già grandicello, e pretendevo che facesse da sé, prendendo me per esempio. Ma parve ch’egli incappasse in mala compagnia, e di questo me ne veniva qualche sentore, e gliene volevo male, e gli facevo lunghe paternali. Ma vedendo le cose sempre sullo stesso andare, me ne stancai e non gli parlavo più. Quel mio silenzio mi pareva gli fosse freno, e invece gli fu sprone. Quel vedersi trattato con indifferenza e non parlato e messo H come un cencio, mi sembrava il maggior castigo che potessi dargli, e che gli fosse coltello al cuore. Questo pareva a me, che spesso mi sono ingannato, supponendo nella gente sentimenti troppo delicati e raffinati. A lui parve, non sentendo più i miei rimproveri, d’essere come scarico d’un gran peso, e s’indurì e si senti più libero. Io che non gli vedevo cambiar registro, avrei dovuto cambiarlo io, e prendere altra via; ma la scuola mi teneva tutto a sé, e poco mi giungevano i rumori del mondo.