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vi. 1817 - l’«eneide» 45

O cosa c’era? «Attenti e desiosi d’udire, arsa e distrutta, di pietà degna e di pianto, ruina e scempio»! Con questa disposizione prosaica non è meraviglia, che dove nel testo è azione, qui sia epiteto e descrizione, e il moto diventi stato, sì che gli oggetti non sieno colti nel primo atto subitaneo, come è il «conticuere» e l’«horret» e il «luctu refugit», ma nel risultato stazionario dell’atto, come «stavan taciti» e come è in questi due versi incredibili:

Benché lutto e dolor mi rinnovelle, E sol de la memoria mi sgomente.
E cosa è questo? E il «meminisse horret», e il «luctu refugit»? Dov’è l’«horret»? dove è il «refugit»? i due atti che dominano il verso e gittano nell’anima tanta emozione? Spariti. E resta il «meminisse» e il «luctu», due parole da cui l’ostetrico cava due versi.

Non siamo più in cielo. Siamo in terra, anzi in piazza, tra gente volgare. Invano chiedi qui, dove sia quel tono solenne ed elevato, quelle divine armonie dolci e melanconiche, quel fluttuare d’immagini, quella fusione di colori e di cose. Il tono è senza carattere, e con quei sinonimi pende al declamatorio, come «arsa e distrutta», «arse e cadéo», e ora ti casca e rasenta il volgare, ora va al melodrammatico.

Quis talia fando... temperet a lacrymis?
                                                  E chi sarebbe...
Che a ragionar di ciò non lagrimasse?
Qui il tono è tra il cascante e il volgare. «Regina, jubes», è tradotto:
Regina eccelsa, a raccontar m’inviti.
Qui siamo in pieno melodramma:
Sed si tantus amor nostros cognoscere casus
Et breviter Trojæ supremum audire laborem...