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di solferino e san martino. 63

Finita la colazione, i Principi si mossero verso la chiesa di San Martino, per il famoso viale di cipressi, in mezzo a due ali di soldati di fanteria, di guardie nazionali e di popolo.

La chiesa di San Martino è piccola, e a vederla di fuori non si distinguerebbe dalle altre chiesuole sparse per la campagna, se non per la facciata, sulla quale si vedono tre bellissimi mosaici: uno che rappresenta la Risurrezione del Redentore, ed è quel del centro; l’altro, quello di sinistra, un angelo colla spada in mano; il terzo pure un angelo con una corona d’alloro. L’interno della chiesa ha un aspetto particolare, che colpisce: le pareti nude, l’altare semplice, e sormontato da una grande croce nera che spicca sopra un’amplissima tenda bianca. La tenda scende dalla volta al pavimento, e copre tutto il presbiterio, in modo che, entrando, non si vede nulla che tiri in special modo l’attenzione. Però quell’aspetto modesto e severo prepara l’animo a ciò che si vede poi.

Entrarono i Principi e il seguito, e s’avvicinarono silenziosamente all’altare. Anche la folla di fuori, compresa della solennità della funzione, taceva; tutti gli animi stavano in grande aspettazione.

A un tratto, la tenda bianca disparve, e si videro in fondo alla chiesa, d’un sol colpo d’occhio, due mila teschi umani ordinati in lunghissime file, l’una sovra l’altra, dal pavimento alla volta, così che il muro n’era interamente coperto; le occhiaie tutte volte verso la porta. Nello stesso tempo tuonò il cannone, e suonò la musica.

Io non credo che si dia al mondo uno spettacolo più solenne e più tremendo di questo. Io non so dire quello che si provò in quel momento: — una scossa, un senso di freddo, un tumulto istantaneo nella mente e nel cuore; orrore, meraviglia, pietà. Da ultimo una pietà affettuosa, mista a un sentimento di gratitudine e di venerazione così profondo e così forte, che metteva