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le terme di caracalla. 129

larga e comoda; ma infinita. Giungemmo senza fiato sur un piano, credendo che fosse l’ultimo; ma guardando intorno, ci accorgemmo che non eravamo nemmeno a mezz’altezza. Da ogni parte ci sovrastavano archi e mura, che pareva s’innalzassero a misura che salivamo. Guardammo giù, e ci meravigliammo d’esser saliti tanto. Da quel punto, abbracciando collo sguardo una gran parte dell’edifizio, potevamo formarci un più adeguato concetto della sua grandezza. Ci trovavamo sopra una lingua di vôlta sottilissima, che pareva stare in aria per miracolo. A guardar giù per le fessure girava la testa. Da un lato si vedeva una lunga fila di porte. Ci avanzammo; ma fatti pochi passi, ed accortici che mancava il soffitto, si dovette tornare addietro. Si scopriva di là tutta la campagna romana del mezzogiorno; si vedeva il monte Testaccio, i deserti prati del popolo romano, la basilica di San Giovanni Lateranense, e uno sterminato acquedotto.

Si scende, si torna verso l’uscita, di sala in sala, di rovina in rovina, sempre fra mura gigantesche e grandi porte, per cui si vedono altre mura e altre porte lontane. Ad un tratto, voltandoci a sinistra, vediamo un grande portico oscuro, e uno spazio di terreno senz’erba, sparso di marmi. Ci avviciniamo; son pezzi di statue. V’hanno delle teste enormi colla fronte e gli occhi levati in alto, che dovevano sorreggere qualcosa; torsi di guerrieri atletici senza capo; in un canto un mucchio di teste di dèi, di soldati, d’imperatori, di vergini, tutte mutilate, e col viso rivolto verso chi guarda; rottami di colonne che tre uomini non possono abbracciare, e mucchi di figurine e di pezzi d’ornato staccati dai capitelli, e pietre di mosaico sparse. Tutti questi marmi lasciati così in terra e disposti con un certo ordine, danno a quel luogo qualcosa dell’aspetto d’un camposanto; quelle teste paiono crani; al primo vederle si dà un tremito, come se guardassero. V’è fra le altre cose, una ma-