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104 l’entrata dell’esercito in roma.

hanno più voce per gridare, si agitano, pestano i piedi, accennano le bandiere e gli stemmi reali e fanno atto di benedire, di ringraziare, di stringersi qualche cosa sul cuore.

Io, ve lo giuro, non ho mai visto uno spettacolo simile; è impossibile immaginare nulla di più solenne e di più meraviglioso. Queste grandi piazze, queste fontane enormi, questi giganteschi monumenti, queste rovine, queste memorie, questo terreno, questo nome di Roma, i bersaglieri, le bandiere tricolori, i prigionieri, il popolo, le grida, le musiche, quella secolare maestà, questa nuova gioia, questo ravvicinamento che ci fa la memoria di tempi, di casi, di trionfi antichissimi e nuovi, tutto quest’insieme è qualche cosa che affascina, che percuote qui, in mezzo alla fronte, e pare che faccia vacillare la ragione; si direbbe che è un sogno; non si può quasi credere agli occhi; è una felicità che soverchia le forze del cuore. Roma! si esclama. — Siamo a Roma? Quando ci siam venuti? Come? Che è accaduto? — Il ricordo di quello che è accaduto è già confuso come se fosse d’un tempo remoto. È un’emozione che opprime. Ad ogni strada, ad ogni piazza in cui s’entri, l’occhio gira intorno meravigliato, e il sangue dà un tuffo. Avanti, di meraviglia in meraviglia, di palpito in palpito, a misura che si procede, la fronte si solleva, il cuore si dilata, e sente più gagliardamente la vita. Ecco la piazza del Popolo. Si corre all’obelisco, ci si volta indietro, si vedono davanti le tre grandi strade di Roma, si vede a sinistra il Pincio delizioso, laggiù in fondo la cima del Campidoglio, tutt’intorno prodigiose bellezze di natura e d’arte, antiche, nuove, auguste, gaie, gigantesche, gentili; la mente sopraffatta si turba, ci prende un tremito, e bisogna sedersi ai piedi dell’obelisco, pigliarsi la testa fra le mani e aspettare che la lena ritorni.

Intanto imbrunisce. Il Corso s’è illuminato come per incanto. Il Corso, illuminato, ha veramente un