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E non è giá che di costui mi caglia, ch’ei muor di fame ed io nuoto nel grasso, e tutti san quant’io, quant’egli vaglia; ma per gioco talor si getta un sasso a insolente mastin, sebben non morda, se latrando ci segua ad ogni passo. E, giá ch’ora toccato ho questa corda, piú dire voglio della vita mia, e quel che vi dirò col ver s’accorda. Sedici anni passar da ch’io venia (cosí volle il mio fato) a queste sponde, senza saper che poi di me saria. Io qui non fior, quand’arrivai, non. fronde germogliar vidi di toscane piante, né d’Arno acque trovai, se non immonde. Io quello fui, che, di mia patria amante, i primi semi del bel dire ho sparsi, per cui si chiari son Petrarca e Dante, e di fiamma si viva i petti io n’arsi col dolce dir ond’hanno i primi onori, che una bella colonia ornai può farsi di chi legge e assapora i nostri autori, e l’idioma lor parla, e l’appella degli angeli idioma e degli amori. Voi qui vedreste ogni gentil donzella tener il Tasso e il Metastasio in mano, e recitar colla sua bocca bella: «Canto l’armi pietose e il capitano»; e modular su dolci itali suoni «Misero pargoletto» all’arpa, al piano. Pianger vedreste giovani e vecchioni al pianto di Francesca e d’Ugolino, fremer con Monti, rider con Goldoni; a mente declamar Mirra o il Mattino ; e al suon celeste del cantor di Fiordiligi gridar:— Per Dio, questo è divino! — Cose son queste che le udirò i sordi, e tutte ques:e cose le ho fatte io: e gracchili pur, se sanno, avidi, ingordi!