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E prostrato dinnanzi al V Agnusdei cantai sonoramente un «Grcitias ago», e giurai di cantarne cinque e sei. Ch’aneli’io, com’altri, son di laude vago, e, se la laude poi daH’Arno viene, maraviglia non è se piú m’appago. Tempo giá fu che dall’ausonie scene s’udi non senza plauso il nome mio, e Dirce udillo, Pindo, Ascra, Ippocrene. Ma quel, che un tempo fui, piú non son io: nove lustri passar, da eh’ io lasciai (piangendo il dico) il bel nido natio, Per diverse contrade errando andai; vidi l’Istro, la Schelda, Elba, Tamigi; credo esser stato fin nel Paraguai ; e, come il peregrin porta i vestigi della polve, che calca, in su’ stivali, o su’ panni vermigli, azzurri e bigi, tal io con parolacce aspre, bestiali, verbigrazia «Me in herr», «IIow do you do?», guastai le grazie e i suoni originali. In vece di «signor», dico «inotisú» ; e il dolcissimo «si» del mio paese appena appena lo conosco piú. Come potria sperar, signor cortese, d’ornar sue carte di purgato inchiostro chi di Babelle il favellare apprese? Però m’arrendo al buon giudizio vostro e di que’ venerandi fiorentini, veri maestri del linguaggio nostro. E se un Rossi me legge, un Niccolini, un Rosini, un Lampredi, od altro tale di que’ vostri febei spirti divini; giacché dell’onor mio tanto vi cale, fate ch’un d’essi o qualche gazzettiere ne dica su’ giornali il bene e il male. Certo furfante allor farei tacere, ch’invido e furibondo in me si scaglia, e di quel, che men sa, piú vuol sapere.