Pagina:D'Annunzio - San Pantaleone, 1886.pdf/355


turlendana ebro. 347

con la faccia su l’erba. Si rialzò a gran fatica, e stette un momento a riguardare in torno li alberi.

Le forme argentee dei pioppi sorgevano immobili nell’aria, taciturne; e parevano inalzarsi fino alla luna, per un prolungamento chimerico delle loro cime. Le rive del fiume si dileguavano indefinite, quasi immateriali, come le imagini dei paesi nei sogni. Su la parte destra li estuari risplendevano d’una bianchezza abbagliante, d’una bianchezza salina, su cui ad intervalli le ombre gittate dalle nuvole migratrici passavano mollemente come veli azzurri. Più lungi, la selva chiudeva l’orizzonte. Il profumo della selva e il profumo del mare si mescolavano.

‟Oh Turlendana! ooooh!” gridò una voce, chiarissima.

Turlendana, stupefatto, si volse.

‟Oh Turlendanaaaaa!”

E Binchi-Banche apparve, in compagnia di un finanziere, su ’l principio di un sentiero praticato dai marinai tra il folto dei salci.

‟Addó vai a ’st’ora? A piagne lu camelo?” chiese Binchi-Banche avvicinandosi.

Turlendana non rispose subito. Si reggeva con le mani le brache, teneva le ginocchia un po’ piegate innanzi; e nella faccia aveva una così strana