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294 il martirio di gialluca.

strappò dal collo la fasciatura e gittò ogni cosa in mare, invaso da un’impazienza irosa. Per vincere il fastidio, si mise al timone e resse la sbarra lungo tempo. S’era levato il vento, e le vele palpitavano gioiosamente. Nella chiara notte un’isoletta, che doveva essere Pelagosa, apparve in lontananza come una nuvola posata su l’acqua.

Alla mattina Cirù, che omai aveva impreso a curare il male, volle osservare il tumore. La gonfiezza erasi dilatata occupando gran parte del collo ed aveva assunta una nuova forma ed un colore più cupo che su l’apice diveniva violetto.

‟E che è quesse?” egli esclamò, perplesso, con un suono di voce che fece trasalire l’infermo. E chiamò Ferrante, i due Talamonte, li altri.

Le opinioni furono varie. Ferrante imaginò un male terribile da cui Gialluca poteva rimanere soffocato. Gialluca, con li occhi aperti straordinariamente, un po’ pallido, ascoltava i prognostici. Come il cielo era coperto di vapori e il mare appariva cupo e stormi di gabbiani si precipitavano verso la costa gridando, una specie di terrore scese nell’animo di lui.

Alla fine Talamonte minore sentenziò:

‟È ’na fava maligna.”

Li altri assentirono: