Pagina:D'Annunzio - San Pantaleone, 1886.pdf/301


il martirio di gialluca. 293


Gialluca prese un fazzoletto e si fasciò il collo. Poi si mise a fumare.

Il trabaccolo, scosso dai cavalloni e trascinato dal vento contrario, fuggiva ancora verso levante. Il romore del mare copriva le voci. Qualche ondata si spezzava sul ponte, ad intervalli, con un suono sordo.

Verso sera la burrasca si placò; e la luna emerse come una cupola di fuoco. Ma poichè il vento cadde, il trabaccolo rimase quasi fermo nella bonaccia; le vele si afflosciarono. Di tanto in tanto sopravveniva un soffio passeggiero.

Gialluca si lamentava del dolore. Nell’ozio, i compagni cominciarono ad occuparsi del suo male. Ciascuno suggeriva un rimedio differente. Cirù, ch’era il più anziano, si fece innanzi e suggerì un empiastro di mele e di farina. Egli aveva qualche vaga cognizione medica, perchè la moglie sua in terra esercitava la medicina insieme con l’arte magica e guariva i mali con i farmachi e con le cabale. Ma la farina e le mele mancavano. La galletta non poteva essere efficace.

Allora Cirù prese una cipolla e un pugno di grano; pestò il grano, tagliuzzò la cipolla, e compose l’empiastro. Al contatto di quella materia, Gialluca sentì crescere il dolore. Dopo un’ora si