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254 Mungià.

e quella inesprimibile apparenza di umanità che acquistano le cose per l’assiduo uso in servigio dell’uomo. Il bossolo ha una lucentezza untuosa; i buchi, che nei mesi d’inverno divengono nidi di piccoli ragni, sono ancora occupati dalle tele o dalla polvere; le chiavette, lente, sono macchiate di verderame; e qua e là la cera vergine e la pece chiudono i guasti; e la carta e il filo stringono le commessure; e ancora si veggono in torno all’orlo li ornamenti della gioventù. Ma la voce è debole e incerta. Le dita del cieco si muovono macchinalmente, poichè non fanno che ricercare quel preludio e quell’interludio da gran tempo.

Le mani lunghe, deformate, con grossi nodi alla prima falange dell’anulare e del medio, con l’unghia del pollice depressa e violetta, somigliano le mani d’una scimmia decrepita; hanno su ’l dorso le tinte di certi frutti malsani, un misto di roseo, di giallognolo e di turchiniccio; su la palma hanno una laboriosa rete di solchi, e tra dito e dito la pelle escoriata.

Come il preludio finisce, Mungià prende a cantare il Libera me Domine e il Ne recorderis, lentamente, su una modulazione di cinque sole note. Nel canto, le terminazioni latine si congiungono alle forme dell’idioma natale; di tratto in tratto,