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132 Cuore infermo

— Non sorridete così — riprese egli con voce triste; — quando mettete in dubbio la mia devozione, mi affliggete.

Il sorriso lievemente ironico scomparve. Anzi quella povera testa, dai bei capelli biondo-castani, sparsi per l’origliere, parve avesse fatto un piccolo movimento.

— Siete troppo affondata nei cuscini forse? Volete che vi aiuti a mutar posizione?... No? Scusate la mia insistenza... È venuto Paolo Collemagno?... Questo nome vi irrita? Non ne parliamo più. Perdonatemi; invece di farvi star meglio, vi fo male.

Un lungo silenzio succedette. Una grande quiete era nella camera. Sul raso bianco delle pareti, sul raso bianco del mobilio, la lampada, chiusa nel paralume azzurro, gittava una tinta glauca. A capoletto, un bel Gesù troppo giovane, dalla barba troppo bionda, dagli occhi troppo celesti e pensosi, squarciava il suo seno e mostrava il suo cuore, traboccante di un sangue che era fiamma di amore. Ma Marcello vedeva queste cose come in sogno, quando alcuni particolari si accentuano profondamente, senza ragione, mentre alcuni sfuggono e mentre l’anima si assorbe nella contemplazione della sua idea dominante.

— Vorrei avere io il vostro male — mormorò egli con quella ingenua, quasi infantile abnegazione dei cuori buoni; — vorrei essere io ammalato; sono forte e potrei sopportarlo. Datemi il vostro male, cara, datemelo, fatemi stare ammalato in vece vostra... datemi il vostro male...

Le diceva queste cose molto davvicino, con un soffio che doveva carezzarle la guancia. Ella aprì gli occhi e lo fissò con uno sguardo freddo, duro, quasi inanimato; poi li richiuse.

— È vero — rispose egli, colpito da quella occhiata