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il maestro di mio padre 213

lio ch’eran sulla finestra, e pareva che volesse dire: — Povero maestro, dopo sessant’anni di lavoro, è questo tutto il tuo premio?

Ma il buon vecchio era contento e ricominciò a parlare con vivacità della nostra famiglia, di altri maestri di quegli anni, e dei compagni di scuola di mio padre; il quale di alcuni si ricordava e di altri no, e l’uno dava all’altro delle notizie di questo e di quello; quando mio padre ruppe la conversazione per pregare il maestro di scendere in paese a far colazione con noi. Egli rispose con espansione: — La ringrazio, la ringrazio; — ma pareva incerto. Mio padre gli prese tutt’e due le mani e lo ripregò. — Ma come farò a mangiare, — disse il maestro — con queste povere mani che ballano in questa maniera? È una penitenza anche per gli altri! — Noi l’aiuteremo, maestro — disse mio padre. E allora accettò, tentennando il capo e sorridendo.

— Una bella giornata questa, — disse chiudendo l’uscio di fuori, — una bella giornata, caro signor Bottini! Le accerto che me ne ricorderò fin che avrò vita.

Mio padre diede il braccio al maestro, questi prese per mano me, e discendemmo per la viottola. Incontrammo due ragazzine scalze che conducevan le vacche, e un ragazzo che passò correndo, con un gran carico di paglia sulle spalle. Il maestro ci disse che eran due scolare e uno scolaro di seconda, che la mattina menavan le bestie a pasturare e lavoravan nei campi a piedi nudi, e la sera si mettevano le scarpe e andavano a scuola. Era quasi mezzogiorno. Non incontrammo nessun altro. In pochi minuti arrivammo all’albergo, ci sedemmo a una gran tavola, mettendo in mezzo il maestro, e cominciammo su-