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si conoscono le azioni, si può dalle medesime risalir fino alle idee; e se si conoscono le idee, si può dalle medesime discendere fino alle azioni. Ora i segni certi delle idee sono le parole. Prima che Condillac avesse sviluppato la teoria di Locke sulle parole, Vico avea visto che le parole non solo erano la veste ma anche gl’istrumenti de’ pensieri, e dalla lingua di una nazione tentò indovinare qual dovea esser la sua filosofia.

Questo è l’oggetto della sua opera Sull’antica filosofia degl’italiani. L’autore avea disegnato di farne tre libri; ma di tre non ne ha pubblicato che il solo primo, il quale versa sulla dialettica e metafísica della scuola italiana.

Egli incomincia dal dimostrare che presso i latini «verum», «factum», 4 unum», «bonum» si alternano tra loro. Quindi, egli dice, il vero non era altro che il fatto; la veritá non differiva dall’esistenza. Quale, dunque, dovea esser il solo infallibile criterio del vero? Il fare. Chi lo avea questo criterio? Chi potea fare. Or tutto poteva fare la divinitá; in conseguenza tutto sapeva. La scienza divina dovea esser infinita, perché infinita era la sua potenza; e l’uomo, di tale scienza, ne avea soltanto una parte corrispondente alla parte che avea di potere. Quindi l’idea fondamentale della filosofia italiana, che la scienza veniva dalla divinitá. Quindi l’espressione latina, che chiamava [l’uomo (*)] ^compos mentis» e «particeps rationis», per dire che queste due qualitá egli non possedeva come proprie, ma solo come partecipe della mente e della ragione unica ed eterna, che costituivan la divinitá. Ed i nomi della divinitá erano analoghi a questa idea. Chiamavasi «numen», cioè «comando», «volontá» per eccellenza, perché dal volere de’ numi esisteva tutto l’universo, e dall’esistere nasceva tutta la loro scienza. I voleri della divinitá chiamavansi «fas», che è lo stesso che «fatto», perché tutto ciò che essi volevano esisteva per necessitá, né vi era per essi alcuna differenza tra il volere, il fare e resistere. E, discendendo dai numi agli uomini, trova che si (i) Parole omesse per distrazione [Edd.].