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tissima curiositá che egli avea di saper i segreti della setta e dell’ostinata resistenza de’ pittagorici in celarli ; quasi che Dionisio, tra i suoi grandissimi progetti di ambizione, si potesse tanto occupare di segreti o letterari o, se anche si vuole, religiosi ; quasi che questo genere di segreto pittagorico vi fosse mai stato per Dionisio. Una lettera di Platone ci mette al giorno che tanto egli quanto Archita avean rivelato a Dionisio quanto vi era di piú arcano nella scuola sulla natura dell’anima e di Dio(’): dopo ciò, è ben puerile cosa credere che gli avessero voluto tacere la ragione dell’aborrimento che aveano per le fave, ragion per cui morirono .( J ). Vi è ragion di credere, ed io lo dimostrerò nel proseguimento di queste mie Osservazioni, che questo aborrimento per le fave o non vi fosse stato o fosse stato tutto altro di quello che la filosofia teurgica del secondo e terzo secolo ha creduto ed il buon senso di Luciano ha deriso, e che forse avran creduto (si vuol di piú?) anche quella plebe di pittagoristi, che mettono in derisione e Menandro ed Alesside. Ma non era questa plebe quella di cui si occupava Dionisio, uomo a cui la setta platonica ha dati i colori piú neri, ma che ha per sé il giudizio de’ piú grandi dell’antichitá, e specialmente di Scipione, che lo chiamava un grandissimo uomo di Stato. Ora un grandissimo uomo di Stato non si occupa delle fave. Ma un grandissimo uomo di Stato, che vuol conquistare l’Italia, ben teme una setta che prèdica principi opposti ai suoi; che, pochi anni prima, dopo gl’incendi de’suoi collegi, dopo l’esilio de’ suoi individui, avea pur avuto tanto potere da farli ritornare superiori, da riprendere le redini delle principali cittá italiane e da formar tra loro una federazione, della quale il capoluogo era Eraclea (3). Questo è quello che Dionisio temeva ed odiava; ed avea tanto piú ragione di temerlo quanto che la setta pittagorica comprendeva allora quanto vi era di meglio nell’ Italia meridionale, talché il distruggere i pittagorici era lo stesso che privar le cittá italiane di mente, di braccio e di cuore. E li temeva tanto piú quanto che al carattere di legislatori, magistrati, guerrieri riunivano essenzialmente l’altro di istitutori della gioventú, e con questo mezzo rendevano eterni, imprimendoli ne’ cuori istessi de’ cittadini, gli ordini che stabilivano (1) Platonk, Epistola* [C.] (1) In bianco nel ms. [Ed.] (3) Polibio [C.] V. Cuoco, Platone in Italia - 11. >9