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152 libro quarto


Ogni cosa essendo pronta, il capitano generale diede il segnale della partenza, e la flotta aprendo le vele, si allontanò maestosamente dalle rive dell’Ozama, governo direttamente al sud-est, per oltrepassare il capo della Spada al di sopra dell’isola Saona, e, dopo passato il promontorio dell’Engaño, guadagnar l’alto mare.

Ogni cosa correva propizia. Spinta da mite soffio giunse all’altezza del Capo Raffaele, ad una distanza di circa otto leghe; là tacquero i venticelli, e improvvisamente si manifestarono segni di grande conturbazione. Il cielo perdette la sua trasparenza, e lo splendore del giorno si oscurò rapidamente. L’Oceano continuava ad esser quieto e cupo: l’aria era grave e soffocante. I piloti esercitati non potevano illudersi; quegli erano precursori della procella.

Quantunque fossero a vista di terra, non avevano modo di cercarvi un rifugio: le vele pendevano flosce lungo gli alberi: l’Atlantico diventato muto e verdastro se ne stava immobile come un feretro di piombo. Non era più possibile nè di tornare in porto, nè di fuggire il pericolo delle coste affrontando l’alto mare. Sicuramente qualche marinaro che aveva sbeffeggiato l’Ammiraglio avrebbe in quel momento voluto, secondo il consiglio della vecchia esperienza di lui, non essere uscito dal porto; ma era troppo tardi.

Alla minaccia seguitò in breve l’effetto.

Un vasto ondeggiare increspò la superficie delle acque: dopo alcune larghe oscillazioni, le onde si gonfiarono annerendo; in breve il fondo del mare sembrò sollevarsi; il soffio della tempesta strideva negli alberi, e squassava fra le enormi spume la flotta. Le verghe percuotevano l’acqua; prora e poppa s’immergevano ad ora ad ora sotto le onde. ll furore di queste faceva urtare l’una contro l’altra le caravelle. Alcune si aprirono e affondarono subito; altre lottarono con impotenti manovre. Densa nebbia addensava la spaventevole oscurità del cielo: non si vedevano l’un l’altro; appena udivansi i comandi inutili del porta-voce, e le grida disperate dell’orrore.

La Capitana, sì mirabilmente onusta d’oro, non ostante la sua