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CANTO XXXIII. tìSìd IL CONTE UGOLINO. La cieca ammirazione delle j?randì opere e degli uomini grandi ri- sveglia talvolta non solo negli ingegni vaghi del nuovo e vani, nelle anime avare di lode, ma fin nelle menti e ne' cuori più r».Hii la voglia, se non di contradire e detrarre, di dubitare e severamente cercar le ragioni di quella lode che par essere di vernata irragionevole. Senon- ché da quel dubbio esce più piena sicurezza di ciò ch'è bello e grande davvero; e quell'indagine insegnando a discernere i gradi e i modi del grande e del be!lo , ne amplia e la coscienza e il godimento. Io intesi un giorno nella mia giovanezza, il buon Torti nella stanza di Alessandro Manzoni ragionare sul Canio dell'Ugolino, e in un momento di malumore, perdonabile e all'innocenza dell'animo suo e al dispetto che gli veniva dalle misere battaglie letterarie d'allora, anteporre alle bellezze di quel Canto altri luoghi di Dante men celebrati, e deside- rare che in quello il Poeta si fosse fermato più sui tormenti patiti dal conte e da'suoi nell'atroce agonia. L'egregio uomo accennava segna- tamente ai tormenti della fame , e alla lenta dissoluzione che si ve- niva in quei corpi vivi violentemente facendo. Ma ben giudicare d'un'o- pera d'arte non si può senza entrare negl'intendimenti dell'autore; i quali conosciuti, allora è lecito cercare come gli corrisponda l'ese- cuzione, e se essi siano in sé ragionevoli, cioè confacentisi dall' un lato al totale concetto dell'opera, e dall'altro alla verità delle cose, Ora chi pon mente, s'ac<-orge che intenzione deliberata di Dante era far prevalere gli spasimi dell'anima a que' delle membra; e, cred' io, non a torto; perché il morire di fame non é di perse la più orribile dellp morii ; e sappiamo di molti che quella volontariamente prescel- sero ad altre morti, tra' quali d'Attico l'epicureo che, annoiato del vivere, avrà studiale le più agevoli vìe d'uscir fuori di quella noia, studiatele forse in altri morenti. Già l'esperienza di pur troppi lan- guenti di fame in tanti secoli di questa bpaia esperienza del viver ci- vile, ci dice che a' primi morsi dolorosi delle viscere disrìune succede un letargo, il quale, a lungo andare, toglie e l'appetito e la possibi- lità del mangiare; onde a quegli infelici il rimedio del male, se in- cautamente si appresti, è pericolo di più pronta line. K in tanto il fa- melico pat'sce più, in quanto alla necessità d»^! •'ibo s'aggiunore la brama doll'avprlo. e il di-^pera'o pensiero dell'esserne senza, e il pre- spniimento del soffrire lungo; in quanto, cioè, i mali del corpo sono da quelli del pensiero aggravati. Kd é appunto lo strazio dell'anima, che tenendo desti i nervi stessi del continuo, prolunga lo slraaio loro, e scuote il letargo supremo, e rinfonde nella morte la vita. Questo, se si consideri quasi meccanicameate la cosa ; ma se di qui