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CANTO V. 57 questo con che Francesca finisce, accanto al quale parrebbero rettorie! i versi dell'Eneide: Prima et Tellus et pronuba Juno Dani signuvi; fulsere iynes et conscius cether Connubii, summoque iilulàrunt vertice Nymphw, se non ci si sentisse espressa da quell'anima verginale, una gr.tnde moralità, e tutte le potenze della natura, insieme con le so- prannaturali, compiangere al fallo, così come nella caduta de' primi parenti d). Una contradizione, non morale ma letteraria, cade forse a notare: se la butera ìnfernate non resta mai, se gli spirili non hanno speranza mai di pena minore, nonché di posa, come é che nel colloquio di Francesca con Dante il venio si face? Qualche codice legge ci tace; che rammenterebbe quel dell'Egloga IX: Et nunc omne tibi stratum silet cequorj et omnes, Aspice, ventosi ceciderunt murmuris aurae. Ma, ollrecclié il ci tace non fa dolce suono, resterebbe tuttavia a sapere com'è che a' due amanti il vento tacesse. Altri può rispondere, che siccome sotto la pioggia e la grandine che fiacca i golosi Dante va e sta non percosso, cosi non solamente in favore di lui non dannato la legge eterna è per un istante rotta, ma e in prò de' dannali stessi. Senonchè qui balza agli occni un difetto più grave, pen-hè morale; dico che cotesta legge sarebbe rotta per la preghiera che volge ad essi il Poeta; e la preghiera è in nome di quell'amore che é la colpa dei due infelici e la pena. La quale inconvenienza é temperata da quelle parole di mesta e profonda bellezza: 5e fosse amico il Re dell'univer- so. Noi pregheremmo lui per la tua pace; dove le parole il nostro mal perverso pajono confessione e rimorso del fallo loro, e un quasi riconoscersi immeritevoli di pietà. Senonchè poco appresso la donna abbellisce la sua passione; e, nel pur dirf della bella persona che le fu tolta e del costui piacer^ non lascia dubbio che l'amor suo al Poeta paresse cosa degna di cuor gentile , e che l'amata in tal modo non potesse risparmiare il ricambio. Non dimentichiamo però che la donna parla come tuttavìa passionata, al rnQdo che gli altari dannati fanno; e che i Teologi stessi ammettono nell'inferno il dolore e la vergogna che tormentano, senza il pentimento che ammenda. Quel motto: 'l modo ancor m'offende^ dopo l'altro tingemmo il mondo di sanguigno, e In- nanzi chi vita ci spense, risalta vieppiù dal ripetere che il Poeta fa anime offense; e qui pure la colpa del rancore sopraggiungesi ad ag- gravare la pena. Similmente nel verso. Questi, che mai da me non fia diviso, la passione disperata si sfoga, e segna la propria condan- na, dactihè il veder patire anima amata tanto, è de' f alimenti il più atroce. Ma guardando più addentro. In questi versi stessi, che Dante ha forse composti innanzi i trentacinque anni, e ardenti delle sue pro- prie memorie, e impressi della pietà de' due miseri (i quali e' poteva aver conosciuti, dacché, quand'essi morirono, volgeva a lui l'anno ventitré di sua età), in questi versi stessi è un senso di tanto più polente quanto meno spiegata moralità. Alle parole della donna il Poeta si raccoglie in sé, china gli occhi, e non si riscuote se non al dire di Virgilio: che pensi? E allora, dopo breve silenzio, esclama, ri- flettendo a sé insieme e ad essi: Oh lasso! Quanto desiderarono quel che li trasse a tanto dolore, e quanti dolci pensieri furono via a ter- mine così amaro 1 La donna poi, rispondendo, attesta che di lutti i dolori il maggiore, cioè più del turbine che senza posa li volta e per- cuote, è la memoria del passato piai^ere; ondose la bufera resta, non resta a' due sciagurati il tormento. E da ultimo la radice del nostro amor è parola che tinge di moralità quant' altre la compassione degli altrui falli e de'proprii trae dal cuore al Poeta. (1) .*:b., IV.