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292 INFERNO. — Canto XVI. Verso 64 a 75

Se lungamente l’anima conduca
     Le membra tue, rispose quegli ancora,1 65
     E se la fama tua dopo te luca,
Cortesìa e valor, di’, se dimora
     Nella nostra città sì come suole,
     se del tutto se u’ è gito fuora ?
Che Guglielmo Borsiere, il qual si duole 70
     Con noi per poco, e va là coi compagni,
     Assai ne cruccia con le sue parole.
La gente nuova, e i subiti guadagni,
     Orgoglio e dismisura han generata,
     Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni. 75


  1. V. 65. La Vind. e il R. il Land. BS, BU, BF afforzano il Witte e stanno contro il Foscolo e i quattro fiorentini. Ancora qui fa intendere che risponde nuovamente.




V. 64. Qui vuol Dante mostrare la diversità che nei fiorentini è occorsa dal tempo che quei tre predetti vissero infino al dì della dimanda, ed introduce a parlare li detti sotto modo d’interrogazione e con scongiuro applicato, e dice ch’elli disser: se l’anima conduca, cioè se tu abbi vita.

66. Cioè se la tua nominanza si conservi in onore, dimmi la verità: usasi nella nostra città, cioè in Firenze, bontà e cortesìa sicome al nostro tempo si facea o no? E la cagione che ci fa domandare di tal dubbio si è che un nostro compagno, il quale è con noi a simile pena per simile peccato, ch’ebbe nome Guiglielmo Borsaro, ed è poco tempo che morì, ci dice che non v’è nè cortesìa nè valore; le quali parole molto ne crucciano, cioè ne danno pena, e però, si subintellige, dimmi a che condizione sta la nostra città?

73. Qui risponde Dante a tal domanda, ed aduce in prima la cagione, poi ne specifica l’effetto. Dice che la gente nuova, cioè la forestiera, e li subiti guadagni, cioè a divenire in avere mondano senza grande fatica, ha in li fiorentini generato orgoglio, cioè superbia a dismisura, cioè intemperanza, per le quali cagioni elli non sono nè cortesi nè valorosi, e tutti adatti e pronti a vizii, li quali descendono da superbia, e da invidia. In per quello che i forestieri non hanno amore alla città, vedendo in essa li cittadini essere grandi, ricchi e possenti, ed aver li offizii, ed ellino incontanente cadeno in invidia, la quale, sicome dice Damasceno: invidia est tristitia de alienis bonis; per la qual tristizia elli si metteno a desordinarsi in l’animo suo, e a dispiacerli ogni curialitade e gentilezza, che in cotali terre s’usano. E però si segue che non sono nè cortesi nè valorosi, e sono privi da ogni valoroso atto. E per li subiti guadagni1 diventano intemperanti, di che nasce il superfluo cibo, il superfluo bevere, il superfluo usare le veneree cose,

  1. Il M. ha sono privi d’ogni bene e virtude e parcitade per li subiti guadagni. Così parmi glossema tutto quello che segue di questo paragrafo.