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Dan.   La morte, o padre, ognuno a par ne mena:

questo morir si eguale doveria
levar de’ morti ogni pensiero e pena.
     Però dovresti, per sentenza mia,
di quel ch’è a tutti eguale ancor passarti,
com’un che va per la commune via.
Iacob.   O Dan, il mal commun, per dichiararti,
non tól del proprio male a alcun la doglia,
perché il mal tuo con altri non comparti.
     Che a me, se morte a molti i figliol toglia?
Chi con molti arde, men però non arde.
Il proprio mal mi dòl, dolga a chi voglia!
Neptalin.   A una cosa ti prego che risguarde,
padre onorato mio, che se’ in vecchiezza,
che sola è infírmitade, se ben guarde.
     Con reverenza, a me non par saviezza,
un mal che per natura è in sé molesto,
voler ancor cargar d’altra gravezza.
Iacob.   Tu parli, Neptalino, assai modesto
e se il dolore a me cibo non fosse,
seria ’l consiglio tuo savio et onesto.
     Ma poi che l’alma mia con sé portosse
il dolce Ioseph, piú dolor non sento,
anzi dá forza ai nervi, polpa et osse.
Gad.   In questo, o padre mio, non ti consento.
Tu sai che morte è un sonno, un passo, un varco
et è fin d’ogni pena e di tormento:
     non esser dunque al consolarti parco,
poi che felice è lui e fòr d’affanni.
Se del suo ben ti dòl, tu gli fai ’ncarco.
Iacob.   Del suo ben non mi dòl, ma de’ soi danni,
che di sua dolce compagnia sia privo
ne la sua bella etá, ne’ soi primi anni.
     Io so, Gad, che pur morto, el è ancor vivo,
e per la sua innocenza ancor felice:
però il mio pianto non pò avere a schivo.