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annotazioni. 307


C’è da venir la pelle d’oca! Ma per lasciar codesto papero infarinato, e tornare alla leonessa, non sarà inutile osservare, che il vocabolo leæna non è veramente latino, ma piuttosto greco. Plauto difatti chiama leo fæmina la lionessa, e lea, vuole che s’abbia a dire Isidoro, ad esempio di Ovidio:

At postquam virtus annis adolevit in apros
Audet, et irsutas comminus ire leas:

dove, non è da nascondere, che taluni leggono feras.


Pag. 210.          Aut Scylla latrans infima inguinum parte.

Di Scilla, che il poeta nostro chiama altrove vorace, favoleggiò prima Omero nell’Odissea, e poi largamente Ovidio nelle Metamorfosi. Furono due Scille, una figlia di Niso, re dei Magaresi; l’altra di Forco e della Ninfa Grateide; ma i poeti le confondono spesso. Cosi Virgilio:

Quid loquar aut Scyllam Nisi, quam fama secuta est
Candida succinctam latrantibus inguina monstris
Dalichias vexasse rates?

Scilla, Cariddi, il Caucaso, la libica lionessa, la tigre ircana, furono invocati, a sazietà, dai poeti, per esprimere un core crudele, inaccessibile a compassione, una mente dura e tetra, come dice Catullo (nel qual luogo è a notare l’epiteto tetra nel significato d’insensibile, selvatica, malvagia). Didone dice ad Enea:

Nec tibi diva parens, generis nec Dardanus autor,
Perfide; sed duris genuit te cautibus horrens
Caucasus; Hyrcanæque admorunt ubera tigres.