Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/208

col fattore, e rinnovar la lega con lui di robbar la padrona. Lo veggo a punto alla finestra che fa Tamor cpn un fiasco. Adio, Marabeo, tu incanti la nebbia a mezzo giorno. O Marabeo! S’è dimenticato in su quel bicchiero, questo gaglioffo Marabeo.

Marabeo. Tondo e frizante insieme: m’è ito fin in su le punte de’ piedi.

Pilucca. Pensa se li sará ito in capo. Marabeo, che ti venga il cancaro !

Marabeo. Chi è lá?

Pilucca. Non mi conosci, briccone?

Marabeo. Non, io. Bevo un tratto, e vengo a basso.

Pilucca. Vattene a casa del diavolo, poiché il fiasco è vóto. Che rombazzo è questo? Sarebbe mai caduto giú per le scale?

Marabeo. Oi! Oi! Oimè !

Pilucca. E’ parla; poiché non ha rotto il collo, è poco male.

Marabeo. Oimè, la testa!

Pilucca. Che cosa ci hai? Leva la mano: non è niente. Il manco male che tu abbi in capo è questo. Oh va’, bevilo tutto tu!

Marabeo. Chi diavolo sei tu, che sei venuto oggi a farmi rompere il collo?

Pilucca. Non mi riconosci ancora? Sono il tuo Pilucca.

Marabeo. Da Lucca?

Pilucca. Son Pilucca.

Marabeo. Oh, Pilucca! E chi t’avrebbe riconosciuto cosi strutto? Sarebbe mai tornato il padrone?

Pilucca. Il padrone è tornato, si.

Marabeo. Cosi si, che romperò il collo da vero.

Pilucca. Odi. Io ho commissione di rivederti i conti. Siamo d’acordo insieme; se non che... tu mi intendi.

Marabeo. E che vuoi contare, che non s’è buscato, poi che tu ti partisti, un soldo?

Pilucca. Marabeo, tu sai ch’io ti conosco, e tu conosci me. Oltre all’esser io tristo di natura, ho imparata l’arte da te, e ultimamente mi sono adottorato in galera; si che risolviti, ché io non ci sto forte. Avemo fatte tante tristizie insieme, che per