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VII
Avea questo uccellaccio ornai ridotta la musica in falsetti e’n semitoni: facea la musa, a suon di pifferoni, singozzare e ruttar come una adotta.
Andava, quando annebbia e quando annotta, culattando i colombi e i perniconi : dava a chiunque vedea, morsi e sgraffioni; la volea fin con gli ippogrifi a lotta.
E come un pappagallo di Cambaia, cinguettando le lingue a’ suoi stornelli, dicea bichiacchie e bubule e baiuche.
Credea che la treggea fosse civaia: però ne dava a macco a paperelli, a sorici, a tignuole, a tarli, a ruche;
tenendosi da piú che baccello, come dire un sermargollo, facea lo cattabriga e ’l rompicollo.
Vili
Tu, che in lingua di gazza e di merlotta, gracchi la «parlatura» ai gazzoloni :
«a che parti si tuoson quii povioni con la bennola in co’ della cestotta?»
Tra «cuccoveggia» e «brontola» e «borbotta», che differenza è negli tuoi sermoni?
Di che vetro si fanno i caraffoni da tenere i siroppi e l’acqua cotta?
Quante braccia di fondo ha la pescaia d’un cervel secco? e intorno a’ tuoi capelli che vuoi prima, o le bietole o l’eruche?
Quante lasagne il giorno e quante staia fanno di crusca quei tuoi molinelli, tra veccia e loglio e brucioli e pagliuche?
Se d’un che ne manduche mi sai dir qual sia piú, vóto o satollo; quid eris mihií il Mangia o ’l magno Apollo.