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Pasquino

Dopo ch’io v’ebbi mandato il sogno di ser Fedocco, per vaghezza di sentir quell’altre meraviglie che accenna d’aver lasciate di scrivere, ho voluto parlar lungamente con lui. Non potreste credere le belle piacevolezze che ne racconta e la stravagante poesia che n’ha fatta e ne fa tuttavia. Egli si, eh’è divenuto poeta in una notte, perché, se ben ne pizzicava un poco, non era però di questa spezie e non dava cosi nel matto com’ora. Vedete, per vostra fe’, che pazzi sonetti m’ha lasciati eh’io v’indrizzi, e con che titolo e di che linguaggio, e sopra che materia! Io non sapendo che domine si voglia dire, me gli son messo intorno con molte interrogazioni, per cavarne qualche costrutto. Fino a ora non ne ritraggo altro se non che vengono da un altro sogno simile, che ’l soggetto è del medesimo gufo, e che son fatti per la seconda espugnazione del medesimo castello. Domandandoli poi in che lingua siano scritti, m’ha risposto: — In quella che parlavano le serve e i valletti, che gli facevano la baia intorno, nella prima visione. — E replicandoli io che non m’intendo di gergo:

— Come «gergo»? — mi disse — o non è questo parlar toscano?

— Ed io: — Come «toscano»? che nel Petrarca non ce n’è parola? — Eccoci pur al Petrarca — rispose egli ghignando. E appresso segui: — Dunque, parlandosi d’un gufo, e per ischerno e da beffe, s’ha da parlare come faceva il Petrarca di madonna Laura, e quando stava in astratto, e quando avea il batticuore? O che diresti, capassone, se ’l Petrarca medesimo, quando era con quei baioni, avesse parlato anch’egli di questa maniera? Voglio che tu sappia che, in questo secondo sogno, io mi son trovato medesimamente seco e fra mezzo del Burchiello e di lui, e che dall’uno e dall’altro sono stato consigliato e aiutato a scriver cosi. Conferendo io con essi la voglia che m’era venuta di rappresentare in qualche modo le fazioni che insieme vedevamo fare nel secondo assalto contra questo uccello, per