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na dove il lume accendeva di rosee sfumature il velluto delle guancie e di riflessi acciaini il nero d’ebano dei capelli.

— Giacinta! — ripetè il conte.

Questa volta la sua voce era blanda, dimessa, e, nel tempo stesso, insinuante, calda di desiderio.

Giacinta, che non s’era avveduta dell’accostarsi adagino adagino di lui, appena sentì sulla nuca il soffio caldo di quel fiato, rapidamente si voltò.

— Che significa? — gli disse con piglio severo. — Queste smorfie, lo sapete, mi dispiacciono.

Il conte, allontanatosi un poco, tornò subito indietro:

— M’hanno detto (ma io non lo credo, oh, punto!), m’hanno detto... che avete un amante... Andrea Gerace!...

Giacinta si sentì venir meno. Quell’accento d’umile tenerezza le aveva sconvolto il cuore.

E lasciò che il conte le passasse un braccio attorno alla vita, e le desse qualche bacio.

— Non lo credo, oh, punto! — egli balbettava, brancicandola lievemente, con insistenza significativa, nella curva dei fianchi. — Come sei bella! Come sei bella!... Senti: resto qui, resto qui! — le ripeteva, serrandola più stretta, ribaciandola con calore.

— Sì: Gerace è il mio amante! — rispose Giacinta con voce turbata, ma ferma.

Si dibatteva per svincolarsi. Ma il conte ormai non voleva lasciarla.

— No, non è vero. Lo dici per celia... Ah, so bene perchè me lo dici!... Come sei crudele!... Resto, resto!...

E le correva appresso, agitando la testa, con le labbra strette e sporgenti, con gli occhi socchiusi e