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dirottamente. Andrea, in ginocchio accanto a lei, tentava di calmarla, di farla parlare:

— Che cosa è stato?... Che cosa è stato?

Immaginava un grosso scandalo. Erano già scoperti? Venivano a sfondar gli usci per sorprenderli insieme? Ma Giacinta, volgendo il capo lo guardava ansiosamente, a traverso il velo delle sue lagrime:

— Dio mio! Non m’ami più? — diceva con voce soffocata, brancicandogli la faccia colle mani tremanti: — Dio Mio!... Non m’ami più?

Andrea rispose abbracciandola, baciandola e ribaciandola furiosamente. E per alcuni minuti, rimasero così, avvinghiati, come confusi in un sol corpo. Fra quei primi baci, fra quei primi abbracci di amanti, di tratto in tratto, scappavan fuori parole mal articolate, frasi mozze:

— Ah, come mai potesti?

— Zitto!

— Che infamia!

— Zitto! T’amo! T’amo!

— Non hai scusa!... imperdonabile!

— Andrea mio!

E si divorarono, silenziosamente, con le labbra incollate alle labbra; non potevan più staccarsi, non respiravano più. E, di là, il ballo riprendeva, e l’oficleide tornava a borbottare da lontano. Andrea saltò in piedi.

— Ed ora?

Giacinta, presolo per le mani, lo costrinse a sedersi di nuovo.

— Più accosto. Non aver timore; non è nulla!

Lo tirava a sè dolcemente, sorridendo, cacciandosi indietro le ciocche dei capelli arruffate sulla fronte nel disordine del pianto:

— Non è nulla; qui siamo sicurissimi!