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compagni di sventura perivano sulla forca, ei venia rilasciato, senza aver vista faccia di giudice, senza che gli si dicesse nè perchè lo si era gettato in un carcere, nè perchè lo se ne era ritolto.

Da quell’epoca visse sempre nella città nativa, scrivendo nella fede sincera del riscatto d’Italia, e vaticinando ed affrettando coi voti il sospirato momento.

E questo giunse alla fine, e se ne gioisse l’animo del poeta ognuno sel pensi. L’Austriaco vide quel sorriso d’ineffabile gioja, e fremente di vendetta e di rabbia, pochi dì prima dell’armistizio di Villafranca, righermì l’Aleardi insieme a quattordici altri de’ suoi concittadini, e lo risospinse in un carcere.

Da quel carcere il poeta udì tuonare il cannone di Solferino e di San Martino; quindi con due soli de’ suoi soci d’infortunio — gli altri venivano tutti riposti in libertà — con la barbarie con la quale un tempo si menavano i vitelli al mercato — udimmo questa frase dalla sua bocca — fu tradotto a Josephstadt, ove rimase imprigionato due mesi.

Tornato libero, come a Dio piacque, si restituì a Verona per abbracciare i suoi cari, quindi passò quel Mincio fatale, sulle cui rive erasi arrestato l’angelo della redenzione italiana.

Accolto con pubbliche manifestazioni di giubilo a Brescia, a Cremona, a Modena ed in altre città, ei scelse Brescia, la generosa, a sua dimora, d’onde dagli elettori di Lonato e Rezzato, da quella terra che finisce a bagnarsi nel Garda, lago domestico di quattro illustri famiglie italiche, la Veronese, la Mantovana, la Bresciana e la Trentina, ei fu deputato rappresentante della nazione al primo Parlamento del nuovo regno, degna e meritata ricompensa a chi tanto fece e soffrì per la patria.