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ufficio speciale di giudicare gli affari di carboneria. L’inquietudine e lo sgomento del conte Giovanni ebbero a sminuire d’assai nell’udir quest’annunzio; di fatti, se non trattavasi che di carbonarismo, egli si reputava sicuro d’esser rimandato assolto, mentre sapeva di non aver mai fatto parte di quella setta nè di alcun’altra.

Giunto di nottetempo a Venezia e rinserrato in un piombo, l’indomani a mezzogiorno fu condotto dinanzi ai giudici processanti che gli fecero subire un lunghissimo interrogatorio, assai vago, e che si aggirò principalmente sull’aver egli letto fogli napoletani e aver comunicato ad altri tali letture, sull’affare della scuola di mutuo insegnamento, volendosi che l’inquisito convenisse d’averla fondata proprio col disegno di cattivarsi l’affezione del popolo onde trarne partito nei futuri contingenti rivoluzionari.

Interrogatore principale era un tal Salvotti, tirolese, che l’autore dipinge bello della persona, con occhi nerissimi, nera e folta capigliatura, elegantemente vestito.

Costui, alzandosi in piedi ad un tratto, mette fine all’interrogatorio, che durava già da quattr’ore, con le seguenti parole:

«— Pellico le ha confidato alla Zaita di essere carbonaro; era dovere in lei di denunziarlo al governo, ella nol fece, quindi è reo del delitto di non rivelazione.»

Tal delitto era punito dalle leggi austriache di quel tempo col carcer duro a vita!

L’Arrivabene avrebbe potuto negare, ma non gli passò neppur per mente di farlo; trasportato invece da un nobile sdegno esclamò: come si potesse pretendere ch’egli denunziasse e tradisse mai l’ospite, l’amico! che se vi erano leggi le quali imponessero tanta infamia, tali leggi erano le più immorali del mondo; che lo si condannasse pure, mentre, se mille altre volte avesse a trovarsi in simil caso, mille altre volte agirebbe nel modo stesso.

I giudici, i quali non erano de’ più perversi, cercarono calmarlo, invitandolo a star di buon animo,