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concedendogli il conversare con uomini liberali, gli fece sentire più vivamente il peso della dominazione straniera, parer più brutta e vergognosa la servitù e crescer nell’animo la brama di vedere Italia indipendente.

Questa preoccupazione, quest’esaltamento dell’Arrivabene principiava a farsi vieppiù gagliardo alla vigilia del 1820, sicchè un patriota del 1796 «uomo esperimentato,» come lo definisce il chiaro autore, doveva dirgli un bel giorno:

— Giovanni, tu finirai nel fondo d’un carcere. «Io ridea — soggiunge il nostro conte — di quel profeta di sventure; ma se la profezia di lui non si avverò, fu puro caso.»

La rivoluzione di Spagna mise in cuore all’Arrivabene un’immensa gioja, e l’animo suo s’aprì a grandi speranze; quella di Napoli, che il toccava anche più davvicino e che poteva più prontamente soddisfare ai suoi desideri e mutare le speranze in realtà, portò al colmo il di cui esaltamento politico, sicchè egli anelava di aver occasione d’operare, alla fine, e di metter mano a far cosa che gli fruttasse stima e lode da parte de’ suoi concittadini e giovasse efficacemente alla patria.

Questa tanto agognata occasione sembra presentarsegli indi a poco, e se non è precisamente tale qual egli avrebbela piuttosto desiderata, gli sembra, però, idonea a condurre in qualche modo al sublime scopo. Ma lasciamo parlare l’autore:

«Trovandomi in Brescia, ed avendo visitato una scuola di mutuo insegnamento che Mompiani vi avea stabilito: ecco, dissi tosto a me stesso, ecco un modo di far del bene e distinguermi a un tempo. Ritornato in Mantova, misi immediatamente mano alla fondazione d’una scuola di simil genere.

«In due mesi io avea raccolto in essa circa ducento fanciulli di varie età e condizioni. Essa era piuttosto un esperimento del metodo che una scuola regolare. Molti delli scolari sapevano già leggere e scrivere quando vi entrarono. Alcuni però eranvi venuti ignoranti affatto queste arti, ed in breve tempo le avevano apprese; cosicchè io era fiero del buon successo.»