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Al marchese di Rorà parve malissimo che il ministero non glie ne avesse mai affatto parlato e non per la Convenzione in sè, ma pel patto fissato accanto a quella, del trasferimento della capitale a Firenze.

Noi non entreremo a trattar la quistione se il marchese di Rorà fosse o no in tal circostanza dal lato della ragione, o se piuttosto al gabinetto Minghetti-Peruzzi incombesse la più grande riserva, fino al momento in cui il Parlamento dovesse essere informato dell’accordo, come quello che solo aveva il diritto di esserne l’apprezzatore. Quello che sembra risultare dai più spassionati giudizî che siano stati pronunciati sul deplorevole affare che fece tanto ridere i nemici d’Italia, si è che, se gli egregi uomini che tenevano il potere in quel frangente, mancarono in parte di previdenza, o piuttosto ebbero una troppo cieca fidanza nella saviezza e nella moderazione provate del popolo torinese, il sindaco di Torino, dal canto suo, mantenendo il consiglio municipale in seduta permanente, permettendogli ch’entrasse a trattare quistioni che non erano affatto di sua competenza, mandando fuori proclami, che avevano immancabilmente la proprietà di attizzare le ire piuttostochè di sedarle e di spegnerle, ha fatto opera, se non biasimevole affatto, tutt’altro almeno che lodevole. Quest’è il nostro parere, ed è il parere di molti; noi lo esprimiamo con franchezza perchè stimiamo obbligo nostro il farlo e perchè vogliamo che sia dato a ciascuno ciò che gli è dovuto.

Del resto siamo persuasi che il marchese di Rorà, il quale è un onesto gentiluomo, può essere stato trascinato su di una via sdrucciolevole da perfidi consigli e da suggestioni malevole; il suo passato, e ne andiamo convinti, il suo avvenire, valgono e varranno ad ad attenuare, se non a cancellare del tutto, quell’istantanea, ma disgraziata fuorviazione.