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dacchè il congresso era omai indetto a Parigi e già le maggiori potenze avevano designato i loro plenipotenziari. Si poteva pel desiderio del bene d’Italia dubitare ancora dell’apertura di quel congresso; ma qual ministero, per far prova d’audacia, avrebbe voluto esser così improvvido da mostrare coi fatti che non vi prestava fede? Qual ministero si sarebbe azzardalo mai a compromettere con un atto d’impazienza le nostre sorti, in cospetto di quell’areopago, che di giorno in giorno andava annunziandosi con una certezza ufficiale? Pur tuttavia v’ebbero non pochi i quali, qualche mese dopo, allorchè le condizioni delle cose erano sostanzialmente mutate, non si peritarono di accusare il ministero Rattazzi di timidità, e poco meno che di avversione alla pronta annessione, i quali ingrossarono poi quell’accusa con tale una serie d’insinuazioni, di dubbi, di censure, da rendere incomportabile agli uomini che lo componevano il peso del potere.

È a coteste accuse che faceva allusione e risposta l’onorevole Rattazzi, col memorabile discorso da lui pronunziato poi nella tornata del 26 maggio 1860, all’occasione della discussione del trattato relativo alla cessione del Nizzardo e della Savoja.

«Per quanto io fossi avvezzo, diceva egli, a conoscere quanto possano le ire di partito, e per quanto una dolorosa esperienza m’avesse dovuto persuadere a quante calunnie, a quanti ingiuriosi sospetti sieno esposti gli uomini che si trovano sventuratamente costretti ad agitarsi nel mare tempestoso della vita politica; per quanto, io dico, di ciò dovessi esser persuaso, tuttavia non avrei giammai potuto immaginare che oggi mi si volesse far rimprovero di aver avversato l’unione all’Italia centrale, anzi, solo il rimprovero di non averla abbastanza favorita.

«Ricorderò, o signori, che non solo in questo recinto, ma anche fuori di esso, quando l’idea dell’unificazione d’Italia pareva un delirio, un sogno di mente inferma, io era generalmente designato come l’uomo della terza riscossa. Questa era l’accusa che mi si apponeva.