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DELL’AMOR DIVISO PER DIFESA DEL DOPPIO AMORE DI CELIA Altre volte in questo luogo ho ragionato: qui non ci è alcuno a cui non sia noto il mio debole ingegno, non ci è alcuno di cui a me non sia noto il cortese costume. Potrei dunque sperare che il mio ragionamento avesse ad esser, se non con diletto, almeno con sofferenza ascoltato. Ma, più dirittamente considerando, m’avveggio che né io né l’Acca- demia non siamo più gli stessi. Io, da che mi partii di sotto a questo cielo, da questo che per me sempre fu di benigni influssi fecondissimo cielo, la sanità del corpo, la serenità dell’animo, ogni mio bene ho perduto: non son più desso. Già so ben io che in alcun tempo mai non sono stato da nulla, e pur or son di men valore che da nulla, se non ho altro paragone che dal nulla al meno basti. Qual mi sia stato, non son più desso; il vedete: io non son più desso: né questa è più la stessa Accademia. Era questa un’Accademia nascente, ma intra bambini anche i primi vagiti, quegl’indistinti bal- bettamenti, sogliono parer vezzosi. A tal fanciullo poté ben anche una semplice e rozza vecchiarella appresso il fuoco con una mal ordita cantafavola recar diletto, al quale, essendo poi fatto grande, piacciono appena gli Omeri. Pargoleggiava l’Accademia degl’Intrepidi quando parve che i miei ragio- namenti non isdegnasse; ma fatta ormai grande, usata a cose grandi, intenta a cose pellegrine, come potrà le mie solite bassezze non aver a schivo? Ma se di me, che parlo, io dif- fido, se di voi, a cui parlo io, pavento, forse che la materia