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epistolarum quae supersunt |
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crede quello che egli di sé pensa. — Cosí veggo che colá si verrá, se cosí singularmente non esamineremo i meriti di costui, che e’ si creda, me avere tenuto l’indebito peso delle sue opere, anzi piuttosto avere dato modo alla pusillanimitá. Che è adunque, innanzi all’altre cose? O vero pe’ conforti di Coridon o vero per sua oppinione, egli vuole essere tenuto uno egregio duca e capitano di guerra, a questo menando per grande argomento che esso sia preposto agli altri del regno di Cicilia; quasi non conosciamo, gli antichi campagnuoli e pugliesi essere suti sempre uomini oziosi, ed egli essere in questo soprannome cosí grande, non di comune consentimento, ma solamente d’un re giovanetto, e quello acquistato da lui, non che in fatti d’arme in guerra fusse il maggiore, ma perché egli venisse al grandissimo soldo che a’ suoi predecessori era usato di dare il principe e perché e’ paresse nobile per soprannome cosí grande. Ma lasciamo questo, ed a quello che egli abbia fatto degno di memoria veniamo. A quante battaglie si trovò egli? quante schiere ordinò egli? quante fuggenti ne sostenne? quanti eserciti de’ nimici sconfisse? quanti n’ha menati prigioni? quali rapine, quali prede, quali spoglie, quali segni militari, quali campi de’ nimici prese? quali province sottomise? Dicalo egli, dicane uno altro; io niuna n’udii. Che adunque scriverò? perché non temerò io di sottentrare al peso dello scrivere? Se lui con gli Cincinnati, Curzi, Scipioni, con Epaminunda e con gli altri non mescolerò, invidioso mi diranno; se non lo mescolerò con Marco Marcello, il quale si trovò in quaranta battaglie quinci e quindi le bandiere spiegate, o con Iulio Cesare, che si ritrovò in cinquanta, non contando le cittadinesche, anche sará detto invidia; se io lo scriverò, mentirò. Non solamente è di bisogno che il capitano sia valoroso, con ciò sia cosa che grandissimi fatti facciano con astuzia. Concedasi. Venga chi mostri quali cittadi nimiche egli abbia con astuzia prese, quali schiere de’ nimici con agguati egli abbia rinchiuse, quali capitani con inganni: ed io non dubiterò poi di farlo pari a Cato Censorino o ad Annibale cartaginese. Sará chi dirá, lui avere spesse volte tolte via grandissime schiere di congiurati nimici. Non lo negherò: ma questo fece con oro, e non col coltello o con sua astuzia, il che è piuttosto ufficio di paciale che di gagliardo duca. Non a questo modo rimosse Cammillo i superbi franceschi del Campidoglio, anzi con ferro distrusse i nimici, tolto loro il pattovito e giá conceduto oro. Queste cose si sanno piú che al suo appetito non