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questi sepolcri, li quali tu vedi ora aperti, «Quando di Iosafá», cioè della valle di Iosafá, nella qual si legge che, al di del giudicio, tutti, quivi, giusti e peccatori, rivestiti de’ corpi nostri, ci raguneremo ad udir l’ultima sentenzia, e di quindi i giusti insieme con Gesú Cristo se ne saliranno in cielo, e i dannati discenderanno in inferno; e chiamasi quella valle di Iosafá, poco fuori di Gerusalem, da un re chiamato Iosafá, che fu sesto re de’giudei, il quale in quella valle fu seppellito; «qui torneranno, co’ corpi che lassú hanno lasciati», quando morirono, li quali, risurgendo, avranno ripresi. «Suo cimitero», cioè sua sepoltura: ed è questo nome d’alcun luogo dove molte sepolture sono, si come generalmente veggiamo nelle gran chiese, nelle quali sono alcuni luoghi da parte riservati per seppellire i corpi de’ morti; e queste cotali parti si chiamano cimitero, quasi «communis terra», percioché quella terra pare esser comune a ciascuno il quale in essa elegge di seppellirsi; «da questa parte hanno Con Epicuro tutti i suoi seguaci, Che l’anima col corpo morta fanno».

Epicuro fu solennissimo filosofo, e molto morale e venerabile uomo a’ tempi di Filippo, re di Macedonia e padre d’Alessandro. È il vero che egli ebbe alcune perverse e detestabili opinioni, percioché egli negò del tutto l’eternitá dell’anima e tenne che quella insieme col corpo morisse, come fanno quelle degli animali bruti; e cosi ancora piú altri filosofi variamente e perversamente dell’anima stimarono. Tenne ancora che somma beatitudine fosse nelle dilettazioni carnali, le quali sodisfacessero all’appetito sensibile: si come agli occhi era sommo bene poter vedere quello che essi disideravano e che lor piaceva di vedere, cosi agli orecchi d’udire, e alle mani di toccare, e al gusto di mangiare. Ed estiman molti che questo filosofo fosse ghiottissimo uomo; la quale estimazione non è vera, percioché nessun altro fu piú sobrio di lui; ma accioché egli sentisse quello diletto, nel quale poneva che era il sommo bene, sosteneva lungamente la fame, o vogliam piú tosto dire il disiderio del mangiare, il qual, molto portato, adoperava che, non che il pane, ma le radici dell’erbe selvatiche meravigliosamente