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risurga, «la sementa santa, Di que’ roman che vi rimaser»; volendo qui mostrare li romani, li quali vennero ad abitar Firenze, essere stati quali furon quegli antichi, per le cui giuste e laudevoli opere si ampliò e magnificò il romano imperio (ma in ciò non sono io con l’autore d’una medesima opinione, percioché infino a’ tempi de’ primi imperadori era Roma ripiena della feccia di tutto il mondo, ed era dagl’imperadori preposta a’ nobili uomini antichi, giá divenuti cattivi): «quando fu Fatto il nido di malizia tanta»; e chiama qui Fiorenza «il nido di malizia tanta», e questo non indecentemente, avendo riguardo a’ vizi de’ quali ne mostra esser maculati. — «Se fosse tutto pieno il mio dimando — Rispos’io lui, — voi non sareste ancora, Dell’ umana natura», la quale per eterna legge ciò che nasce fa morire, «posto in bando», cioè di quella vita cacciato, anzi sareste ancora vivo; e quinci gli dice la cagion perché esso questo dimanderebbe, perciò «Che in la mente m’è fitta», cioè con fermezza posta, «ed or m’accora», cioè mi va al cuore, «La cara buona imagine paterna, Di voi», verso di me, «quando nel inondo», vivendo voi, «ad ora ad ora, Mi mostravate come l’uom s’eterna», per lo bene e valorosamente adoperare. E cosi mostra l’autore che da questo ser Brunetto udisse filosofia, gli ammaestramenti della quale, si come santi e buoni, insegnano altrui divenire eterno e per fama e per gloria. «E quanto io l’abbo in grado», quello che giá mi dimostraste, «mentr’io vivo, Convien che nella mia lingua si scerna», percioché sempre vi loderò, sempre vi commenderò. «Ciò che narrate di mio corso», cioè della mia futura fortuna, «scrivo», nella mia memoria, «E serboio a chiosar con altro testo», cioè a dichiarare con quelle cose insieme, le quali gli avea predette Ciacco e messer Farinata, «A donna», cioè a Beatrice, «che saprá, s’a lei arrivo», chiosare e dichiarare e l’altre cose e quelle che dette m’avete. «Tanto vogl’io che vi sia manifesto, Purché mia coscienza non mi garra», cioè non mi riprenda, se per avventura alcuna ingiuria piú pazientemente che il convenevole sostenessi, «Ch’alia fortuna», cioè